FOTOTERAPIA

FOTOTERAPIA

Partendo da questo presupposto e appoggiandomi alla mia formazione che cerca di integrare l’Approccio Psicofisiologico Integrato, le Artiterapie, la Formazione Psicodiagnostica e la Psicodinamica, propongo ai miei pazienti, quando lo ritengo utile, l’utilizzo della Fototerapia.

“Il fototerapeuta fa metaforicamente un passo dietro la fotocamera del paziente per vedere cosa – e come – egli vede; o anche come, secondo lui, una persona dovrebbe “apparire”; o riflettere sui significati, sui sentimenti, sui ricordi e sui pensieri suscitati da un’immagine fotografica” (Judy Weiser, 2013).

Nel guardare una fotografia compiamo un salto cognitivo che ci proietta nella situazione/relazione rappresentata, grazie a questo è più facile rievocare situazioni, ricordare, ampliare dei ricordi e sicuramente provare a parlarne.

“Una fotografia ha la speciale capacità di apparire allo stesso tempo come una realistica illusione e come un’illusoria realtà, un momento catturato, ma in fondo non del tutto” (Judy Weiser, 2013).

La fotografia è un punto di partenza, non è sufficiente a svelare contenuti inconsci, nè a suggerire interpretazioni. Il ruolo del fototerapeuta è quello di fare domande, è il paziente colui che deve fare le scoperte e deve trovare le proprie verità. Gli argomenti e gli schemi presenti nelle immagini cominceranno ad emergere in modo così ripetitivo che sembreranno chiedere di essere notati per poi creare connessioni.

Il fatto di proiettare significati personali sulle fotografie è connaturato con il fatto stesso di guardarli. Descrivendo fotografie e reagendo ad esse le persone sono spesso in grado di entrare in contatto con forti sentimenti che sono solitamente celati da difese cognitive come negazioni e razionalizzazioni.

La tecnica proiettiva fa uso di immagini fotografiche allo scopo di evocare risposte emozionali. Quando cerchiamo di comprendere la fotografia, la scannerizziamo mentalmente, decostruendola istintivamente per far si che essa abbia per noi un significato. Le nostre rappresentazioni interiori di quella foto, le nostre personali costruzioni, saranno l’unica realtà che saremo capaci di cogliere da essa nel creare il nostro significato.

Quando ho iniziato ad utilizzare tecniche Fototerapiche ho subito notato molti punti di contatto con l’utilizzo del test di Rorschach. Ciò che una persona nota, rispecchierà sempre la mappatura interna che lei o lui sta inconsciamente usando per organizzare e comprendere quello che i suoi sensi stanno percependo. Fermarsi a riflettere su questo incessante processo di attenzione e chiarificazione, può aiutare il terapeuta a comprendere il sistema di valori e la struttura di convinzioni che sta alla base delle costruzioni cognitive del paziente, i codici personali che il paziente usa e le connessioni tra i pensieri consci e il riaffiorare spontaneo di sentimenti e ricordi. Solo quando il paziente è in grado di diventare consapevole di questi meccanismi, i sentimenti connessi con questi stimoli possono essere riconosciuti e integrati meglio (o modificati, se lo si desidera).

La fotografia è uno strumento facilitatore per lavorare e suggerire trasformazioni giocando metaforicamente con il punto di vista ma anche psicofisiologicamente con lo sguardo.

L’esperienza arteterapica che utilizza la fotografia lavora principalmente sul “punto di vista” come metafora concreta: lo sguardo, come gesto che esprime un atteggiamento posturale, esistenziale e relazionale, descrive le proprie possibilità comunicative e percettive e di conseguenza può modulare, trasformare o semplicemente rimandare un feedback del modo di guardare le cose.

Altro obiettivo che l’esperienza fotografica arteterapica si pone è quello di lavorare sulla tematica del contatto: come entro in contatto con l’altro? Come il contatto visivo è coerente o meno con le altre modalità e stili di contatto? Nell’interazione il soggetto mette in atto il proprio stile di contatto e il dialogo che ne deriva mette in moto la consapevolezza sul modo personale di entrare in contatto. Processo di rispecchiamento questo, in cui si evidenziano le proprie rappresentazioni relazionali, dell’autorappresentazione di sé e dei modelli operativi interni.

IL PUNTO DI VISTA COME METAFORA CONCRETA

Per percepire visivamente un oggetto collocato nello spazio, il soggetto deve orientare il suo sguardo , la percezione quindi è un operazione che si realizza nel contesto di una postura. L’intenzione di guardare in un certo modo orienta e organizza specifici atteggiamenti posturali.

L’operazione in cui si chiede di cambiare il punto di vista implica una flessibilità intellettuale che si impianta su concrete modificazioni visuo – posturali, e alla base di questa operazione c’è un concreto, seppur minimo, spostamento-torsione degli occhi, del capo e del collo che fa si che il soggetto guardi il mondo da un diverso angolo visuale.

“Guardare”quindi significa riposizionarsi nell’ambiente. Lo sguardo infatti è accompagnato da assestamenti posturali e di conseguenza cognitivi e attraverso quindi la fotografia e possibile facilitare dei cambiamenti di punto di vista e una modulazione dello sguardo.

L'AUTORAPPRESENTAZIONE

L’autorappresentazione, che la letteratura tende a definire come immagine corporea, è strettamente collegata con le afferenze sensoriali provenienti da tutto il corpo, sia dai recettori che raccolgono informazioni dall’ambiente esterno (occhio, orecchio etc.), che dai muscoli del corpo (informazioni propriocettive). La letteratura moderna tende a superare, per quanto riguarda l’autorappresentazione, l’antica distinzione tra immagine e schema corporeo, considerandoli come funzionalmente interagenti. L’autorappresentazione ha l’insostituibile funzione di dare unità all’esperienza corporea, generando il vissuto soggettivo dell’Io con una ben individuata presenza e pertanto essa rappresenta un punto fondamentale nella dinamica della costruzione biopsicologica dell’Io (Ruggieri V.). Gesti e Atteggiamenti sono una sorta di fotografia cristallizzata di alcune modalità psicodinamiche. I diversi atteggiamenti posturali sono espressione di una precisa rappresentazione che il soggetto ha di se stesso, quindi la fenomenologia “osservabile” sarebbe una fedele immagine delle rappresentazioni mentali riproducendo anche stati emozionali e stili relazionali (Ruggieri V.). E cosa avviene quando guardiamo noi stessi? Quando ritraiamo noi stessi attraverso la fotografia per poi osservarci? L’autoritratto permette al soggetto di rivisitare e risignificare le varie tappe della costruzione dell’Io, di ripercorrere le fasi di soggettivazione, di porsi, rispetto al proprio corpo, ad una giusta distanza, di fermare una rappresentazione perché possa tornare ad essere la propria autorappresentazione più autentica ed integrata. Avendo a che fare con il “reale”, una fotografia attiva in chi la guarda un immaginario personale, un potenziale evocativo oltre all’aspetto biografico e descrittivo. È noto infatti, dalle teorie di Winnicott prima e dalle neuroscienze oggi, che l’aspetto relazionale attinente alla percezione della nostra immagine proviene dal volto materno, primo ed autentico specchio il cui bambino si cerca e si vede (o non si vede) e si riconosce (o non si riconosce). Dunque, fin dalla nascita il vero specchio dell’Io è lo sguardo dell’altro, da cui nel bene o nel male non possiamo mai prescindere. Questa presenza dello sguardo dell’altro, più o meno invocato, più o meno temuto, e a volte sentito come violento ed intrusivo, è parte integrante del modo in cui l’individuo si vede e si rappresenta, nel dubbio, nel dolore, nella desolazione, nella gioia e nell’esaltazione: c’è sempre dentro di noi, nel momento in cui ci rappresentiamo a noi stessi, lo sguardo di qualcuno che ci osserva e ci giudica, ci assolve o ci condanna. Il legame con il volto materno oltre ad essere relazionale, è concretamente visivo, scopico, il bambino effettivamente si vede e dunque iscrive i tratti del volto materno in quella che diventerà la propria immagine mentale.

LABORATORI